Il papà Goffredo non amava parlare della guerra e del suo ruolo durante quei difficili momenti, tuttavia ci ha sempre raccontato di essersi nascosto nel cassetto di un comò dentro il castello di Sant’Agata Feltria. Punto.
La cosa sarebbe finita lì per sempre, se non avessi avuto occasione di partecipare alla presentazione di un libro che parlava dell’eccidio di Fragheto, avvenuto nell’aprile del 1944.
In quell’occasione, strane assonanze con uno scritto che il papà aveva cominciato a redigere per allenarsi al computer (strumento meraviglioso che aveva scoperto a 80 anni suonati) mi hanno spinto a fare delle ricerche più approfondite.
Scriveva il papà:
“Nel marzo del ’43 non mancò anche per me la chiamata alle armi .
Il distretto di Milano mi inviò la cartolina rosa e da Milano fui destinato al 90° reggimento di fanteria di Savona per essere poi avviato a Pietra Ligure per iniziarvi un durissimo corso di allievo ufficiale.
La guerra intanto imperversava con danni ovunque…. Ai primi di luglio arrivò l’ordine di trasferimento dell’intero reggimento a Roma e precisamente alle Capannelle, accantonati nei box dei cavalli di quell’ippodromo. La nostra compagnia aveva il compito di prestare servizio nel campo di aviazione di Ciampino ed erano piuttosto frequenti lunghe marce anche notturne per portarci in quei luoghi. Era una vita faticosa, anche per i frequenti risvegli notturni dovuti alle incursioni aeree e per il rumore dei bombardamenti che si udivano in distanza. Nel mese di agosto del ’43 bombardieri in gran numero sorvolarono la zona per dirigersi su Roma dove vennero distrutte le zone di S. Giovanni e del Quadraro.
Con la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre ’43 anche il nostro reggimento si sfasciò completamente e dalle Capannelle scappammo tutti di gran corsa senza sapere dove saremmo finiti. Io ed altri miei quattro amici ci rifugiammo impauriti negli scantinati di un condominio alla periferia di Roma, stabile che era stato distrutto dai bombardamenti. Mi detti subito da fare per prendere contatto con qualcuno e pensai di telefonare ad un caro amico di mio padre – funzionario della Banca d’Italia – che abitava non tanto distante in via Appia Nuova, il quale dette rifugio sia a me che ai miei amici per qualche giorno.
Da Roma non fu facile uscire. Dopo alcuni giorni, ci avventurammo recandoci alla stazione Termini dove, con qualche acrobazia, riuscimmo a prendere una tradotta per il nord. Fu così che in piena notte, arrivando nei pressi di Arezzo, mi riuscì di saltare dalla tradotta, dalla parte opposta del marciapiede, per poi recarmi velocemente a chiedere rifugio in una sperduta casa di periferia. Il giorno dopo raggiunsi in corriera Sansepolcro, dove carissimi amici della mia famiglia mi dettero alloggio e vitto per un paio di giorni e cioè fino a quando non mi fu possibile prendere la corriera per Novafeltria.
Il mio ritorno a casa fu molto commovente dopo tante peripezie, comuni peraltro a tanti giovani in quel travagliato periodo…Dopo qualche giorno però la paura dei tedeschi che, si diceva, cominciavano a rastrellare i militari ancora presenti a Pesaro e dintorni per portarli in Germania, militari tutti appartenenti alla Repubblica Sociale, ci obbligò a correre ai ripari. Fu così che io e Bischi, con il grado di sergenti allievi, chiedemmo di entrare a far parte di un plotone destinato a Sant’Agata Feltria, plotone col compito, unitamente a un drappello di dipendenti della Questura di Pesaro, di sorveglianza e pattugliamento per la presenza di partigiani nella zona.
Dopo una decina di giorni, i partigiani arrivarono numerosi occupando l’intero paese e noi militari fummo fatti prigionieri nel giro di poche ore.
A me in particolare capitò di trovarmi nel castello da dove, attraverso una feritoia, potevo vedere chiaramente la loro avanzata in gran numero e quanto accadeva nel centro del paese. Per quanto mi affrettassi a chiudere il pesante portone di accesso al castello, le minacce dall’esterno mi obbligarono ad aprire per permettere il saccheggio di quanto si trovava nel dormitorio dei militari. Fui fatto prigioniero e quasi del tutto spogliato e a piedi scalzi condotto nella sottostante piazza dove già si trovavano i miei commilitoni. In quelle condizioni la sera stessa, tutti incolonnati, partimmo per una lunga marcia fra i monti percorrendo sentieri melmosi. Infreddoliti e stanchi per il lungo tragitto, io e l’amico Bischi fummo finalmente alloggiati in una stalla, trattamento per noi di favore perché avevamo pregato uno dei partigiani di far presente al comandante (Falco) che era nostra intenzione unirci alla brigata Garibaldi che ci aveva catturato.
Dopo un paio di giorni di stenti, provato dalla fatica e dal freddo, una febbre altissima non mi permise di rimettermi in marcia e fu allora che il comandante mi fece liberare in piena notte con regolare lasciapassare. In quello stato mi fu possibile raggiungere dopo qualche ora una casa di contadini ed il giorno successivo riuscii a portarmi fino a S. Agata, segretamente alloggiato in una locanda di conoscenti dove venni poi curato dall’amico Dott. Manlio Franchi, medico condotto.
Mio padre che per giorni aveva inutilmente vagato cercandomi su quei monti, finalmente potè riabbracciarmi e condurmi a Novafeltria.”
Il papà si trovò quindi a Sant’Agata nei primi giorni dell’aprile 1944 e precisamente lunedì 3 aprile alle 11,30 circa, quando 300 partigiani entrano armati in paese e conquistano il presidio facendo prigionieri i giovani soldati che lo compongono (fra cui il papà), li spogliano e a piedi scalzi verso le 17 comincia una lunga marcia fra i monti, dove vagano per due giorni (probabilmente verso Rivolpaio), cioè fino al 5 aprile prima di essere rilasciati dai partigiani(il papà aveva “un gran febbrone”)
Dall’altro versante di Sant’Agata, nella notte fra il 5 e il 6 aprile i tedeschi si dirigono verso Capanne e le Balze dove, nei pressi di Calanco, ingaggiano una lotta contro i partigiani fino alle 3 del pomeriggio. Di qui, le truppe tedesche si spostano verso Fragheto dove arrivano il 7 aprile, venerdì santo e, per rappresaglia contro i partigiani con cui si erano scontrati il giorno prima a Calanco, uccidono indiscriminatamente uomini, donne e bambini della frazione: in tutto 31 persone.
Contemporaneamente la sera del 7 aprile, i giovani prelevati dai tedeschi all’infermeria di Capanne, sopravvissuti alla battaglia di Calanco, vengono fatti marciare tutta la notte e giungono la mattina del sabato santo nei pressi del ponte Carattoni: sono 8 giovani che vengono uccisi sul greto del fiume.
Il papà nel frattempo, proprio la notte del 5 aprile, dopo aver vagato per i monti (non oso immaginare la paura) cercava di tornare nuovamente a Sant’Agata dove giunse probabilmente nella tarda mattinata del 7 dopo essersi rifocillato e riposato presso una casa di contadini.
La sua vita ha quindi sfiorato la tragedia: se non fosse stato portato verso Rivolpaio e fosse invece stato impiegato per la battaglia di Calanco, io non sarei nata ecc. ecc.
Chissà quante volte siamo stati anche noi sull’orlo dell’abisso senza accorgercene.
Fonti:
Archivio Bonifazi, A Milano con papà
AA.VV., Vittime e colpevoli. Le stragi del 1944 a Fragheto e in Valmarecchia, a cura di Antonio Mazzoni, Viella, Roma, 2022
Racconti e testimonianze orali con Alvaro Bragagni e Antonio Mazzoni